Io non so so se i motivi che hanno spinto agli omicidi di tarda estate, quello che ha avuto per autore Moussa Sangare, cittadino italiano nato da genitori nordafricani e da Riccardo, pluriomicida italiano di nascita e di famiglia, saranno considerati futili o abietti, quest’ultimo un altro motivo di aggravante. Certamente c’è qualcosa che li collega e che, diciamolo con lettere chiare, ci fa paura. La rubrica di Pino Pisicchio
L’art. 61 del codice penale italiano allinea una serie di ragioni messe in mano ai giudici per comminare aggravanti alla pena edittale originariamente prevista. Tra queste c’è un titolo che, dal punto di vista semantico, è destinato a sorprendere chi non manovra abitualmente il linguaggio giuridico: l’aggravante per futili motivi. Che cosa possa esserci di futile, cioè di insignificante, per esempio in un atto grave come l’omicidio è difficile capirlo: sembrerebbe che ad un omicida ben motivato il codice sia disposto a riconoscere una certa “dignità professionale”, che viene negata ad un gesto compiuto per ragioni carenti o del tutto irrilevanti.
In realtà siamo di fronte ad un pretesto a prescindere, che scatena la furia criminosa del reo, che, a quel punto, avrà come possibile linea di difesa l’impervio percorso della dimosctrazione di una mente avariata. Io non so so se i motivi che hanno spinto agli omicidi di tarda estate, quello che ha avuto per autore Moussa Sangare, cittadino italiano nato da genitori nordafricani e da Riccardo, pluriomicida italiano di nascita e di famiglia, saranno considerati futili o abietti, quest’ultimo un altro motivo di aggravante. Certamente c’è qualcosa che li collega e che, diciamolo con lettere chiare, ci fa paura.
Entrambi hanno ucciso con armi da taglio, quelle che costringono l’assassino ad un impatto diretto con la vittima, al lordarsi con il suo sangue, a coinvolgersi totalmente nell’atto criminale. Uccidere con un coltello non è come uccidere con un colpo di pistola, tanto per capirci: non c’è distanza e non c’è possibilità di evitare il contatto fisico con la vittima.
Ma c’è di più: nonostante la diversità dei contesti- il primo un trentunenne, familiarità con le droghe, ambiente deprivato e ambizioni da musicista rap, il secondo diciassettenne di famiglia medio borghese, descritto come studente modello- ci sono molte analogie tra i due. La prima e più straniante è la dichiarata mancanza di motivazioni per il gesto compiuto. Moussa ha detto agli inquirenti di aver ucciso spinto da una sensazione che non sa spiegare, forse qualche “voce di dentro”, avrebbe detto il protagonista pazzo di qualche b movie americano, scegliendo la vittima casualmente, forse perché la ragazza in quel momento era felice ed era intenta a guardare le stelle.
Riccardo, invece, altro non ha detto se non che si sentiva “escluso” dalla famiglia. Che per i vicini era una famiglia perfetta, un “modello”. Gli esperti della psiche poi faranno sapere quale grado di consapevolezza si potrà attribuire ad ognuno dei due, e, tuttavia, la concomitanza temporale dei fatti luttuosi, la loro collocazione geografica nella sterminata provincia lombarda, a 47 chilometri l’uno dall’altra, l’appartenenza a zoccoli generazionali vicini, forse autorizza, se non considerazioni razionalizzanti, almeno qualche domanda di senso.
La prima: in quale baratro nichilista abbiamo abbandonato i nostri ragazzi? La sensazione è che non ci sia uno straccio di paradigma valoriale cui le giovani generazioni sono indotte a guardare e il modello “autoprodotto” secondo le inclinazioni più facili, lo impongano solo i social. Attenzione: non c’è appartenenza cetuale che faccia più differenza. Moussa, l’italiano di seconda generazione alla deriva, che sogna di diventare un rapper e Riccardo, il bravo ragazzo di buona famiglia italiana, ossessionato da chissà quale inconfessata paturnia, soffrono, forse, della stessa solitudine da esclusione generazionale, molcita solo da qualche social. Se fossimo in America, con l’accesso facile ad armi da fuoco, probabilmente le stragi compiute dai ragazzi yankee sarebbero presenti anche da noi. Perché la generazione d’oltremare ha con i nostri ragazzi una fratellanza nichilista.
Ovviamente non so immaginare ricette per correggere questo trend, anche perché non sono così sicuro che i genitori non siano anche loro toccati, per lo più inconsapevolmente, da un nichilismo di tipo nietzschiano, che fa tabula rasa del catalogo valoriale dei padri per far posto ad uno nuovo che poi non arriva. Certo, se l’unica agenzia formativa per i nostri ragazzi resta internet, diventerà difficile far capire loro che un rapporto amoroso tra una donna e un uomo non è precisamente quello raccontato dai siti pornografici.